domenica 6 aprile 2014

Derive Autoritarie Quotidiane.

Non so se certi "mood", certe idee, certi concetti nascano per un effettivo sentimento di paura o di indignazione oppure siano totalmente frutto di elaborazione razionale di uno, due, tre capicordata, ideologi, ispiratori (non saprei neppure come definirli).
Quello che so per certo è che quando un "manifesto" prende piede gran parte del pubblico che lo sottoscrive lo fa per interesse, per mera faziosità, in maniera totalmente acritica.
In italia la faziosità è il pasto più ingerito: ne sono colmi i talk show, ne tracimano i giornali, ne strabordano i social network. Ovunque c'è faziosità.
Non esula da questo peccato originale dell'opinione pubblica italiana il recente appello "verso la svolta autoritaria" firmata da diversi intellettuali italiani, tra cui importanti costituzionalisti quali Zagrebelsky e Rodotà.
Si tratta di intellettuali di grandissimo valore ma per lo più legati ad un mondo antico, totalmente sfigurato dalla modernità, praticamente scomparso. Uomini e donne nati culturalmente e formatisi sotto l'egida delle ideologie imperanti, con una forma mentis costruitasi tra la paure, le guerre, i muri.
Adesso però siamo nell'Aprile 2014, la classe dirigente cui attribuiscono questa fantomatica svolta autoritaria è costituita da gente che ha iniziato a fare politica quando il Muro era già crollato, tanto per capirsi. Una classe dirigente che comunica in 140 caratteri e che si può accusare forse di frivolezza, magari anche di superficialità, ma che la democrazia e libertà li ha nel sangue.

La realtà è che questi appelli si fondano, basta vedere chi li ha firmati, sue due sentimenti:
1) sulla nostalgia: quella dei depositari di un sapere (quello costituzionale, ad esempio) superati o da superare, grandi valori che non vanno dimenticati, vanno solo adeguati ad un mondo che non è più quello uscito dalla più spaventosa guerra della storia dell'umanità.
2) sul risentimento: quello di Grillo & Casaleggio, ma anche degli intellettuali di una sinistra che non c'è più, sconfitta dal tempo e dalla storia. Gente che parla di svolta autoritaria un giorno sì l'altro pure, che vede pericoli in tutto ciò che non sia ossequioso alla propria visione autarchica e monocromatica. Gente abituata a urlare al mondo le altrui colpe, ma incapace di riconoscere le proprie.

Molti indicano in una certa freddezza nei confronti del mondo della cultura una grave e inaccettabile pecca da parte di questo governo. Il punto però è che la presa di distanze non è verso il mondo della cultura nel suo insieme, ma verso un certo corporativismo del sapere che in Italia ha prodotto tante eccellenze ma anche tanti parassitismi. In un'epoca di ripensamento del sistema-paese, il mondo della cultura non può essere certo esentato: i cosiddetti "baroni", le strutture direzionali delle università, enti improduttivi, tutto questo dovrà sottoporsi a ripensamento, a riforma, aprirsi alla contemporaneità che, purtroppo, adesso significa anche necessità di riduzione dei costi.

Sia chiaro: non è detto che queste riforme messe in cantiere dal governo siano tutte giuste e corrette: è corretto stimolare il confronto nel dettaglio, puntare ad apportare modifiche laddove vi siano debolezze. Quel che è certo però è che non possiamo più rimandare, all'infinito, inneggiando ad un "benaltrismo" assurto ormai vera e propria religione di ogni opposizione.
Nella riforma del senato, il ruolo dei delegati degli enti locali può essere certamente approfondito con il contributo di tutti. Nella ridistribuzione delle prerogative delle province certamente possono essere ascoltate le critiche di chi ritiene questa correzione non del tutto funzionale. Però il disfattismo, lo sfascismo che sa soltanto ottenere immobilità lo deploro: da troppo tempo galleggiamo in un nulla eterno che ci sta inghiottendo. Per cortesia, usciamone.

Sono tra coloro che non ritengono la figura del "costituzionalista" tra le più alte del nostro panorama culturale: non riesco a riconoscere a questi studiosi monogami, esperti di un solo sapere totalmente rivolto al passato quella patente di guide spirituali del paese che invece molti sembrano conferire loro. Mi sembrano uomini di grande levatura morale ma distanti dalla realtà, dalla realtà produttiva, dalle infinite precarietà dell'esistenza moderna, dalle incertezze emotive ed esistenziali con cui le nuove generazioni sono chiamate a confrontarsi.
No, non credo che Stefano Rodotà, Sandra Bonsanti o Barbara Spinelli abbiano gli strumenti, neppure quelli culturali, per fornire un'ermeneutica adeguata ai tempi, e quindi, di conseguenze, fornire soluzioni.
La loro battaglia è unicamente, meramente, puramente una battaglia di conservazione, senza alcune visione di prospettiva.