domenica 23 febbraio 2014

Una consolazione impossibile

“Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa”.
(Stig Dagerman, “Il nostro bisogno di consolazione”, incipit)

Confessione di un’anima abbattuta, afflitta, in eterno conflitto con l’Inspiegabilità dell’Essere, questo brevissimo testo regala una densità di spunti inversamente proporzionale al numero di pagine di cui è composto. Alla ricerca incessante di “consolazione”, l’essere umano dipinto dal pittore espressionista Dagerman non riesce mai a soddisfarsi, ad appagarsi, se non per piccoli tremebondi attimi, dati da umane, ahi troppo umane cose: il caldo abbraccio di una donna, un’improvvisa ispirazione poetica, un’ennesima estasi in madre natura.

Ma la Luce, quella Luce che unica potrebbe dare consolazione perdurante, a noi intuttopococredenti è preclusa. Ed ecco allora che questo piccolo libro diviene premonitore di un destino maledetto, quello di Dagerman e del suo suicidio a soli 31 anni, allorché sempre più insistente si affaccia, sovente e convincente, la parola Morte. Parola troppo spesso, pericolosamente, posta vicina alla soluzione del Tutto, che Dagerman chiama appunto Consolazione. Come quando, al termine di una profonda esplicitazione di quella che è la sua inalienabile aspirazione alla Libertà, scrive:
E mi pare di capire che il suicidio è l’unica prova della libertà umana”.

Il talento, il bisogno di sentirsi uno ed unico nei confronti di una massa sempre più opprimente, un esistenzialismo irrisolto e irrisolvibile, tutto questo emerge dalle poche pagine di questo testo a mio parere altissimo, vera e propria opera d’arte, breve riassunto di un autore poco conosciuto ma intenso e sconvolgente come pochi altri.
Per meglio comprendere il percorso di pensiero compiuto da Dagerman occorre tenere presente la sua formazione anarchica, lontanissima dalla tripartizione geo-politica imperante al tempo della sua gioventù, ovvero la “trimurti” Nazismo-Stalinismo-Americanismo. Questa incapacità di accettare una realtà inaccettabile per i suoi slanci romantici, la sua sensibilità, i suoi veraci sentimenti d’amore per l’umanità, traghetta lentamente la lucida razionalità di Dagerman da un anarchismo “politico” ad un anarchismo “esistenziale”, ovvero un tendenziale nichilismo che sfocia in vera e propria disperazione.

È a questa disperazione, conseguenza di un’angoscia dai connotati classicamente kierkegaardiani-heideggeriani, che Dagerman si rende conto di non poter dare consolazione, e questo breve testo ne è la splendida ma triste presa di coscienza finale.

A metà tra il testo filosofico e il monologo, quest’opera ricorda e si avvicina a opere di autori precoci e maledetti, tragici, e potrei al riguardo citare un Carlo Michaelstaedter o un Otto Weininger, per l’analoga fine che li contraddistingue, ma anche il Camus de “L’uomo in rivolta”. Tuttavia, emerge dalla lettura di questo libro (più che degli altri romanzi da lui scritti) una concreta originalità, un talento innato che rendono questo autore unico anche nel panorama della letteratura scandinava del primo Novecento.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Stig Dagerman, “Il nostro bisogno di consolazione”, Iperborea, Milano 1991.
Traduzione e introduzione di Fulvio Ferrari. In appendice, frammenti.
.Stig Dagerman (Älvkarleby, 1923 – Stoccolma, 1954), scrittore, poeta, saggista, sceneggiatore svedese. Diresse “Storm”, giornale della gioventù anarchica. Debuttò pubblicando il romanzo “Il serpente” nel 1945.
Prima edizione: “Vårt behov av tröst”, 1952.

sabato 15 febbraio 2014

Fenomenologia del renzismo

Dunque ci siamo.
L'uomo del fare (l'ennesimo), l'uomo dalla "smisurata ambizione", il volto Pop di una sinistra talmente nuova da non esistere più ce l'ha fatta: è arrivato al traguardo.
Da ogni parte si sollevano proteste, critiche, sberleffi su un'incoerenza mastodontica, che spiazza e lascia l'amaro in bocca anche a coloro che hanno sempre sostenuto il sindaco di Firenze. É inevitabile per uno che ha edificato tutta la propria carriera politica sul consenso popolare, che ha fatto della vocazione maggioritaria un suo tratto distintivo, ma che poi si ritrova a percorrere l'ultimo chilometro della sua maratona sfruttando mezzi non suoi, non facendo affidamento esclusivo sulle proprie gambe, il proprio cuore, il proprio agonismo.

L'istinto di affibbiargli epiteti quali "traditore", "bugiardo", "arrivista" sorge sia nei più acerrimi detrattori che nei più accorati sostenitori.
I fatti della politica però vanno sempre analizzati con la massima razionalità possibile, altrimenti si rischia soltanto di incappare in banalizzazioni fini a se stesse.

L'urgenza, l'ossessione di Renzi sono le riforme, il cambiamento, concetti sui quali ha investito tutto il proprio capitale elettorale. Una volta trovato l'accordo con parte delle forze parlamentari per queste riforme, Renzi ha dovuto prendere atto che i tempi della traduzione in atti e fatti della sua volontà sarebbero stati lunghi e il percorso molto rischioso. I partiti più piccoli, compattamente, ma anche parti della minoranza del PD si sono mostrate apertamente ostili alle Riforme proposte, specie per quanto concerne l'abolizione del senato.
I rilievi del Presidente della Repubblica poi, che hanno costretto all'innalzamento della soglia minima per ottenere il premio di maggioranza al 37%, hanno probabilmente portato a maturare una nuova consapevolezza: che una maggioranza vera, compatta, armonica del PD in grado di garantire la tanto agognata governabilità non ci sarebbe mai stata.

Il governo Letta aveva ormai, a parere quasi unanime, esaurito la propria spinta, limitandosi ad un vivacchiare quotidiano di proclami e buone intenzioni che la situazione economica drammatica non poteva più giustificare.
Detto che quella di Renzi è, seppur nei suoi limiti, l'unica base programmatica, progettuale che abbia ricevuto un apprezzamento popolare (attraverso le primarie), che gode di un consenso abbastanza ampio e trasversale anche tra le forze sociali, come tradurla quindi in azione di governo senza dover attendere anni e anni?
Come evitare il logoramento della persona, delle idee, del consenso?

La strada prediletta dei renziani era ovviamente quella delle elezioni, ma con quale legge elettorale? con quali garanzie di vittoria?

Sulla scia di questi dubbi i collaboratori più stretti del futuro premier hanno iniziato a chiedere al segretario PD di prendere in considerazione l'ipotesi della famigerata "staffetta".
In quel preciso istante, la minoranza ex DS, giunta alla conclusione che il governo Letta non aveva più motivi per andare avanti, ha voluto sfidare il neo-segretario a mostrare di che pasta fosse fatto. Qui entra in gioco l'orgoglio di un Renzi che non aveva più voglia di attendere, di nascondersi. 
I nemici di ogni parte politica, convinti che il suo sia soltanto un fuoco fatuo, una stella destinata a spegnersi presto, lo hanno spinto ad una decisione spiegata con il "necessario senso di responsabilità" del segretario del principale partito italiano, ma che in realtà è frutto della sfrontatezza di un giovane politico abituato a giocarsi il tutto per tutto, idiosincratico agli attendismi.

Matteo Renzi adesso si gioca un "all in": per lui non ci saranno seconde possibilità. Ad un rottamatore non si perdona niente. La sua sarà una gara tutta in salita, solitaria, una sfida quasi impossibile da vincere considerando le insidie che gli arriveranno da ogni parte. Avrà contro le opposizioni, avrà contro gli sfascisti di professione, avrà contro i conservatori di lungo corso (la cosiddetta casta), avrà contro anche intellettuali e professori della sofisticazione (dai costituzionalisti à la Zagrebelsky in giù).

Il destino di Renzi però è il destino dell'Italia: l'ultima possibilità di rilancio, di rimonta, di crescita.
Alternative non ce ne sono: ancora una volta, tocca turarsi il naso e sperare. Remare contro la sua voglia di cambiamento significa remare contro il futuro di questo paese; spegnere la sua ambizione, oggi, significa spegnere l'ambizione di un paese stanco, che ha energie solo per un ultimo scatto in avanti, prima di sedersi per sempre.

sabato 8 febbraio 2014

Un baule pieno di gente

Si dice di Pessoa: più che uno scrittore, fu un' intera letteratura.

Ed è proprio così: l'infinito riproporsi dell'autore portoghese all'attenzione degli appassionati è un loop inestinguibile causato proprio dal florilegio di personaggi, di caricature, di personalità che emergono dalla sua opera. 
Eteronimia è dunque il vocabolo chiave, come ha spesso spiegato anche Antonio Tabucchi, vero e proprio eco di Pessoa nella contemporaneità.

"Mi sono moltiplicato per sentire, 
per sentirmi, ho dovuto sentire tutti, 
sono straripato, non ho fatto altro che traboccarmi, 
e in ogni angolo della mia anima c'è un altare a un dio differente".

Un apparentemente insignificante impiegato di un'oscura azienda di Lisbona, con mansioni di traduttore, celibe e schivo, timidamente monarchico: questo era, appariva agli occhi (pochi) di chi lo frequentava. Un'anima debole, zoppa, tintinnante, sgorgata in 27.543 "files" ritrovati in un baule alcuni anni dopo la morte, che vanno a tratteggiare un Odissea di storie, un oceano di versi, aforismi, prose d'arte di valore inestimabile per la letteratura novecentesca.
Nel suo silenzio fecondo, Pessoa nascose dentro quel "baule pieno di gente" tutta un'antologia, capace di spaziare dal nichilismo cinico e acuto di Bernardo Soares al sublime sperimentalismo di Álvaro De Campos, fino al paganesimo autoconsunto di un novello Orazio, ovvero Ricardo Reis.
Tuttavia, al di là dell'incontenibile furia genitrice di "autore in cerca di personaggi", quello che rimane di Pessoa è una lezione di psicanalisi collettiva che insegna la multiformità dell'IO (di ogni IO), la sostanziale essenza multilevel di ogni persona, la fertilità della contraddizione e talvolta perfino della finzione.
"L'enigma in persona", come lo definì Federico Barbosa, è ancor'oggi uno spunto di riflessione sull'uomo, sulle sue infinite possibilità, sulle sue infinite evoluzioni. Pessoa è lo spicchio di evoluzione della specie che alberga in ognuno di noi, è la mutevolezza del pensiero che ci ridisegna ogni giorno, è il dolore che scolpisce nuovi sentimenti con lo scorrere delle vicende nostre e di chi amiamo.

"Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente".

Minimo comune denominatore, se vogliamo trovarlo, di tutta la produzione eteronima di Pessoa è una certa inquietudine, quella strana sensazione, indefinibile, di non riuscire a possedere la vita davvero fino in fondo. Suona dunque in sottofondo una colonna sonora nostalgica e costante, un Fado irresistibile, che nessuno è riuscito a tradurre così bene in suoni&immagini come Wim Wenders  in Lisbon Story
Eppure, quello di Pessoa è, in ultima analisi, un inno alla libertà, una libertà figlia di una curiosità senza pregiudizi, in grado di spaziare dall'occultismo ai classici greci, dalla monarchia alla geografia. Una dedizione costante alla ricerca, un inarrestabile invito a trascendere se stessi.
Perché anche nell'oscurità di un ufficio senza finestre, possono filtrare i raggi di una creatività insopprimibile.