Queste elezioni
amministrative del 9/10 Giugno hanno fornito parecchi spunti di riflessione validi
anche a livello nazionale, nonostante ciò che asseriscono gli
sconfitti di turno.
Trattandosi di elezioni
locali diffuse in tutto il territorio nazionale, e non solo in pochi
comuni circoscritti in un numero limitato di regioni, emerge un
chiaro e uniforme messaggio che riguarda in primis un'indicazione dell'elettorato
nei confronti della capacità di amministrare: al PD questa capacità
viene largamente riconosciuta, al PDL viene riconosciuta qualche
volta, al M5S non viene riconosciuta. Gli altri partiti sono N.P., non pervenuti.
Sul M5S emerge un dato di
fatto che nasce non solo dalla valutazione dei pochi risultati
ottenuti finora a livello locale, ma anche a livello parlamentare,
dove appare ormai consolidata una “fuga” del movimento dalle
responsabilità gestionali. Nulla togliendo all'apprezzabile voglia
di cambiamento, alle istanze ambientaliste e di pulizia espresse da
Grillo e i suoi, è evidente ormai a tutti come questo sia un
movimento nato per controllare, per setacciare gli sprechi, per
accusare e criticare errori e orrori della politica, non certo per
progettare e gestire. Un movimento dell'uomo qualunque 2.0 che fa
leva su un voto tremendamente “volatile”, tremendamente di
protesta, senza base ideologica solida. Trattandosi di un voto
debole, poco ragionato, è un voto che confina de facto con la
voragine dell'astensionismo, e appena cala un minimo di motivazione e
di attenzione in quella voragine ci cade.
Quanto al PDL, si tratta
di un eterno ritorno dell'eguale: quando c'è il capo si lotta per
vincere, quando non c'è si scompare. Un partito il cui principale
difetto non è tanto la difettosa presenza sul territorio, ma
l'inconsistenza di una classe dirigente selezionata in base al grado
di accondiscendenza nei confronti del capo, che quindi non è in
grado di autoriprodursi, di evolversi, di crescere. Mancano idee, manca identità, manca passione.
Il PD, come detto, esce
incredibilmente rafforzato dalla tornata elettorale. A mio avviso
attualmente la forza del pd consiste in due aspetti che in realtà da
molti sono considerati debolezze: la trasversalità e la
contraddittorietà.
Il PD soffre infatti di molte
contraddizioni, di lotte fratricide tra correnti, però proprio
grazie a queste correnti pesca voti dalla sinistra post-comunista al
centro cattolico, indistintamente. Ha dunque una base elettorale
molto ampia. Non solo, ma l'essere partito perfettamente diviso tra
rinnovamento e conservazione, usufruisce dei benefici di entrambi, in
questo momento:
- è protagonista di un governo che qualche risultato, pur in poco tempo, lo ha ottenuto, e ha in Enrico Letta un giovane premier rassicurante, un democristiano rivisto e corretto, competente, che piace molto al centro;
- ha in Matteo Renzi, ma anche in Debora Serracchiani, in Marino, in Civati, e tante altre figure locali e nazionali di spicco schierate contro le larghe intese, megafoni vivaci del cambiamento e della rottamazione della vecchia classe politica.
Il poter contare su un
elettorato tradizionalmente formato, competente, territorialmente
organizzato e partecipativo fa sì che soffra meno degli altri il problema
dell'astensionismo, e questo potenzialmente può essere un vero e
proprio jolly per i futuri appuntamenti elettorali.
L'annotazione in chiave
elezioni politiche nazionali in seguito a queste amministrative è dunque che il PD ha chiaramente in mano la possibilità di uno scacco matto.
Un ticket “all'americana” Letta-Renzi, che faccia forza appunto
su queste trasversalità/contraddittorietà di cui sopra, può
davvero mettere a segno un risultato storico, la possibilità di
ottenere una maggioranza solida che permetta di lavorare cinque anni
come non è mai accaduto ad una coalizione di centro-sinistra in
Italia.
Il rischio è comunque
dietro l'angolo, perché è risaputo: la sinistra è la peggior
nemica di se stessa.