Dunque ci siamo arrivati anche noi. Dopo Trump, dopo la Brexit, anche in Italia il populismo ha trionfato, con il suo carico di velleitarismo, di disamore per la complessità e l'analisi, la sua normalizzazione che in realtà è banalizzazione.
Il vero dato di queste elezioni è che, al di là di chi ha vinto o perso, o dei programmi, ha vinto la post-verità, hanno vinto i meme, gli slogan che solleticano gli istinti più nevrotici e deteriori, sconfiggendo una volta per tutte la dialettica forbita, le proposte complesse corredate da numeri e statistiche, le visioni a lungo termine corroborate da ragionamenti geopolitici articolati.
Siamo entrati anche con annuncio della Gazzetta Ufficiale nell'epoca della post-cultura, dove il sapere va messo obbligatoriamente (e democraticamente) in par condicio con il non sapere, e l'Università La Sapienza se la gioca quanto a prestigio con l'Università della Strada (Sigh!).
Politicamente sono le elezioni della sconfitta dell'egocentrismo devastante di Renzi, che con il suo ingresso nell'arena politica si è ammalato dei peggiori mali della real politik italiana, quei mali che all'inizio della sua carriera aveva promesso di spazzare via con la sua rottamazione.
Renzi ha rottamato invece da solo, con la sua pochezza strategica e la sua arroganza sconfinata, l'idea più che condivisibile di trasformare il Partito Democratico in un partito con connotati sempre più liberal-democratici, cosa riuscitagli in parte nella prima fase di governo ma poi soffocata dall'abbraccio con i vari Verdini, Alfano, Lorenzin, e residuati vari di opportunismo post-democristiano.
L'arretramento del blocco dirigenziale che ha garantito la stabilità e la governabilità in questo paese, sepolto dalle furiose bordate di un'opposizione demagogica e intellettualmente disonesta, ha dato spazio a coloro che hanno fatto della protesta modaiola, della massificazione del dissenso una bandiera vincente.
La democrazia dell'alternanza però garantisce a tutti libera espressione e possibilità di redenzione: occorre quindi sperare in un ravvedimento, in un'evoluzione di queste nuove classi dirigenti che chiamate a misurarsi con la soluzione dei problemi, con la preparazione di un DEF o di un meeting del G7 capiscano ciò che veramente richiede la gestione, l'amministrazione di un paese, ovvero poche urla, pochi slogan, e molto, molto studio. E soprattutto, occorrerà recuperare un concetto poco affascinante, un po' retrò e poco tranchant: il buonsenso.