domenica 30 novembre 2014

Forti coi deboli


Non è tanto il presunto blocco di fronte al campo nomadi di Torrevecchia, che nei fatti ha ostacolato l'ingresso a scuola dei bambini. Non sono neppure i vergognosi cori debordanti di odio e vigliaccheria.
No, non è questo che rende gran parte dei post-fascisti una masnada di perdigiorno inutili e insignificanti: è il fatto che questi rivoluzionari all'amatriciana poi nei fatti non ottengono mai niente di quello che si prefiggono, se non qualche tafferuglio di strada da hooligan fuori tempo.

Questi cantori della violenza "levatrice della storia" in realtà poi appena ne hanno possibilità si intruppano in qualche consiglio comunale o in qualche municipalizzata per godere del privilegio di un'antica amicizia con qualche vecchio missino incravattato. Quello che di loro si ricorda nelle storia repubblicana sono soltanto i miserrimi momenti in cui hanno fatto da stampella alla DC (vedi Governo Tambroni, 1960) o a Berlusconi, ovvero i momenti più bui e devastanti della democrazia in Italia. Sempre pronti a farsi efficientissime crocerossine che accorrono al capezzale del potentissimo impresentabile di turno, perché anche loro, a volte, tengono famiglia.

Però...

Però, quando si tratta di fare manifestazioni contro un campo rom, o contro un centro d'accoglienza, bé, allora sì che li puoi scorgere fieri e vigorosi con le loro bandiere nere e i loro tricolori un po' sbiaditi. Sono celeri, organizzati, scenografici. Sanno il fatto loro quando c'è da urlare in faccia a un 14enne con la gravissima colpa di essere figlio di un albanese, oppure quando c'è da chiedere di cacciare qualche pericoloso orfano 12enne, che magari ha perso i genitori durante una fuga da un paese in cui rischi la mutilazione solo per la tua religione.

Colpe...

Ce l'ho un po' con Dio, perché quando ha distribuito l'umanità, e la capacità di immedesimazione nel prossimo, ha escluso questi sfortunati esemplari di esseri viventi. Per questo, forse, non posso fare loro una colpa di essere, come diceva Pietro Nenni, forti coi deboli e deboli coi forti.

domenica 16 novembre 2014

Tardoautunnale

Adesso è quel tempo in cui l'incartocciarsi della foglia sotto i piedi è la più frequente delle colonne sonore, se ti immergi in una promenata verso il centro-città in via di agghirlandamento.
Il suono piacevole e fastidioso del tappeto giallo in cui affondi lo stivaletto rimanda alla malinconia implacabile, ineludibile di tutti i cambiamenti.

Le malinconie risplendono di poesia e nulla come la malinconia della natura si avvicina alla Poesia Perfetta.

L'attesa, qualunque attesa, nel periodo tardo-autunnale è più feconda, più densa, più autocompatita. Come in una canzone di Bon Iver, ogni pensiero in questo spicchio di stagione è un quadro in cui la cornice è essenza stessa dell'opera. 


sabato 25 ottobre 2014

Blut und boden


Non credere no, 
non credere neppure un istante
alla verità piccina
della stirpe, del sangue.

domenica 28 settembre 2014

Riforme, queste sconosciute.

L'Italia si dimostra in questi giorni, in queste ore, ancora una volta, paese di insormontabili corporativismi.
A qualsiasi fronte di riformismo si apra, anche solo con semplici annunci, si frappongono immediatamente resistenze invincibili, trasversali, furibonde.

Qualsiasi categoria in Italia è sempre svelta nel dichiarare la propria benevolenza verso il cambiamento, ma appena si prova a intavolare una discussione su qualche microscopica variazione al loro status ecco che scoppiano rappresaglie mediatiche, scioperi, lobbismi di basso livello, accuse di autoritarismo/ massoneria/ anticostituzionalità assortite.




Riformate tutto ma non il mio spicchio di mondo.



No, il riformismo in Italia non ha strada. Non si possono tentare rivoluzioni né innovazioni, in nessun campo.
Se affronti il tema dei "nuovi" diritti civili insorge la Chiesa, se affronti il tema della liberalizzazione e della sburocratizzazione dei contratti di lavoro insorgono i sindacati, che provi a mettere mano alla pubblica amministrazione o alla scuola cadono i governi come foglie in autunno.

Non abbiamo ben capito quale sia la direzione in cui si muovono le scelte del governo, non sembra trasparire una "weltanschauung" compiuta e univoca, e certamente l'impressione è che qualcosa sia mutato rispetto alle idee espresse da Renzi durante le ultime campagne elettorali. Tuttavia, la sensazione è che, al di là dei demeriti del governo, siano queste forze conservatrici ad averla vinta.

Dalle componenti retrograde del governo (NCD), a quelle della maggioranza (bersaniani e dintorni), fino alle opposizioni che soffiano sul fuoco della protesta e dell'antipolitca fine a se stessa (M5S), tutti difendono i privilegi acquisti dal proprio partito/movimento o dal proprio micro-elettorato di riferimento, dimenticando (volontariamente) il bene superiore rappresentato dall'esigenza di dare un futuro al paese.

Il passatismo è un virus che non riusciamo a debellare: tutto rimane fermo, immobile, vetusto.

Aggiungiamo regole, leggi, decreti senza riuscire a cogliere il vero risultato di cui abbiamo bisogno, ovvero quello di asciugare le paludi burocratiche che atrofizzano le articolazioni moriture del paese. Insidioso l'accesso al lavoro, ingessata l'economia, bloccata l'esistenza dei cittadini.

Non sono favorevole al governo (non ancora, se non riesce a realizzare almeno una parte di ciò che si prometteva).
Di certo, però, sono all'opposizione di questa opposizione, di buona parte delle opposizioni.
A furia di opporci a tutto e a tutti, per invidia, per convenienza elettorale, per corporativismo, per conservazione dei privilegi, abbiamo finito per annientare la speranza, la voglia, la fiducia.
Criticando tutto e tutti senza misura, spesso senza argomenti, in maniera faziosa abbiamo finito per devastare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Nessuno propone niente, se non piccoli palliativi a problemi di secondaria importanza, eppure tutti brillano nella dialettica distruttiva dell'avversario.

Questa è l'Italia: un paese che ha deliberatamente deciso di opporsi al futuro.

sabato 30 agosto 2014

Disinformescion

Non ci sono dubbi: la politica ha deluso tutti.
Ha deluso ad ogni livello, in ogni campo, difficile trovare qualcuno che sostenga il contrario. C'è però un settore, in Italia, che per certi aspetti è ancora più deludente della politica: il giornalismo.
Salvo rari, benemeriti casi, in Italia il giornalismo è il frutto scadente di un posizionamento strategico, l'emanazione costante e patetica dell'asservimento alla quota di mercato di riferimento.
Va in onda su schermi grandi e piccoli il killeraggio quotidiano del libero arbitrio, in un un trionfo senza ostacoli della faziosità assurta a pensiero dominante della professione.
Lo spettacolo è miserrimo: giornalisti supini che narrano le gesta dell' insignificante capocorrente di turno come fosse Adenauer, cantori di impavidi rivoluzionari che tratteggiano sceneggiate puerili come fossero prese della Bastiglia, funamboli del taglia e cuci che aggiustano dichiarazioni in base ai gusti dei propri lettori.
Dimmi cosa voti e ti dirò ciò che vuoi, sembra essere il modus operandi delle testate nostrane.

Preoccupa molto questa situazione in cui non è tanto la libertà di stampa ad essere in pericolo (nella speciale classifica grazie alle recenti riforme abbiamo scalato diverse posizioni) quanto l'atteggiamento di fornitori e fruitori di informazioni, per i quali al racconto dei fatti viene sempre anteposta l'opinione, il giudizio schierato politicamente.
Il lettore italiano medio prova quasi ribrezzo per quel lavoro duro, noioso, a volte fastidioso di ricerca della verità, di approfondimento, di elaborazione di un giudizio libero. Predilige notizie preconfezionate che gli dicano che le sue scelte di campo sono quelle giuste, che gli forniscano qualche argomento da utilizzare nelle discussioni tra amici. 
Purtroppo la stampa, come la politica, sono sempre lo specchio di un paese.

Sarebbe quindi utopico aspirare oggi, dopo venti anni di berlusconismo, dopo mezzo secolo di lottizzazioni sfrenate dei media pubblici, di manuale Cencelli applicato alle direzioni di giornali e telegiornali, ad un giornalismo del livello anche culturale che questo paese meriterebbe: e pensare che un tempo il livello del nostro giornalismo era assoluto.
Ricordare la qualità, il fermento culturale espresso dalle riviste fiorentine del primo novecento, ai Papini e ai Prezzolini, ai Croce e ai Salvemini, all'autorità anche morale del Corriere della Sera del direttorissimo Albertini, alla bellezza degli elzeviri di Montale sullo stesso quotidiano mette soltanto tanta tristezza e una dolorosa malinconia.

Imparzialità, questa sconosciuta.
Oggi abbiamo a disposizione solamente prodotti mediatici schierati politicamente, giornali che cercano di influire sulla politica, giornali (e siti) che in maniera parassitaria traggono sussistenza inseguendo l'umore di questo o quel capopartito.
In un paese dove la destra ottocentesca è stata esempio di liberalismo, abbiamo una destra in cui gli unici due quotidiani di riferimento (Il Giornale e Libero) sono praticamente proprietà di Berlusconi, come lo sono diversi canali televisivi, e l'impatto sull'opinione pubblica, l'alterazione della verità in questo ventennio sappiamo essere stato devastante.
Abbiamo una sinistra che perpetua da decenni un circolo vizioso di auto-indulgenza verso una militarizzazione degli organi di stampa: giornali, telegiornali che raccontavano verità comode chiudendo gli occhi di fronte ad una realtà di errori, occasioni perse, consociativismi, compromessi al ribasso. Oppure, in alternativa, abbiamo avuto per decenni giornali del tutto schiavi di un'ideologia (Il Manifesto, l'Unità) che nel frattempo veniva demolita dalla storia, così da trovarsi improvvisamente senza lettori, senza sostenitori, senza senso. Ovvio, se racconti una realtà che non c'è più.

Il problema però, in rapporto al "nuovo che avanza", è addirittura ancor più pericoloso: da Renzi e la sua strategia tutta fondata sul marketing dalla quale la televisione appare totalmente inebetita, fino a quella che si presenta come opposizione al sistema che al contrario usa mezzi nuovi (internet) ma metodi vecchissimi.
Quest'ultimo prodotto della faziosità italica è infatti tra i peggiori in assoluto specie per la qualità del prodotto giornalistico: siti internet (alcuni dei quali di proprietà del cofondatore del Movimento 5 stelle, che di questo stiamo parlando) che usano un linguaggio del tutto sproporzionato e fuorviante rispetto a ciò che raccontano. Un vortice di urla e scandalismo basato sul nulla (quando va bene) o sulla menzogna (nei casi peggiori). 
Produzioni seriali di FINTI SCOOP (come ben testimonia questo articolo), fotomontaggi da asilo, ricerca spasmodica di click a buon mercato, ipnosi del lettore al quale vengono fornite valvole di sfogo alla propria rabbia in un coacervo di balle, rivelazioni apocalittiche, illusioni di verità alternative che hanno come unico risultato ottenuto quello di aver creato una nuova figura sociale: quella dell'adepto (incazzato) al Nulla.

sabato 5 luglio 2014

Storie della storia del calcio.

Il calcio non è solo uno sport. Certo, i detrattori dipingono ormai questa bicentenaria attività ludica come un caravanserraglio di immoralità, una terra di nessuno abitata soltanto da esseri sopraffatti da superficialità e materialismo.
Purtroppo ho il dovere di annunciare che l'occhio coglie solo ciò che alberga nell'animo. Se ci si sofferma soltanto sugli aspetti economici, gli stipendi folli, il gossip che annichilisce, bé, forse è perché si ha la capacità, o la voglia, di cogliere solo questi tristi aspetti.

Il calcio è anche altro: è  romanzo e poesia, dramma e liturgia.
Lo abbiamo notato anche durante questi Mondiali che pure, non va dimenticato, sugli aspetti "amministrativi" ed etici di pecche se ne portano dietro in quantità industriale.

Il calcio è il palo di Dzemaili al 121° minuto di battaglia tra David Svizzera e Golia Argentina, quando tra gli elvetici s'insinua il dubbio che iddio sia passato dalla parte dei più forti.
Il calcio è la traversa di Pinilla, e il suo tatuaggio che immortala la disperazione di un uomo e della sua nazione.
Il calcio è la squadra dell'Iran che si tiene in equilibrio tra la voglia di dare gioia ai propri sostenitori e il low profile imposto dalla spending review più talebana della storia: una sola maglia per tutta la durata del torneo. E guai a chi esulta, in patria.
Il calcio è David Luiz che a fine partita invita lo stadio in festa a tributare un applauso universale a James Rodriguez, la vera grande stella sbocciata nella competizione. L'onore delle armi.
Il calcio è Tim Howard, portierone americano con la sindrome di Tourette, che ha battuto il record di parate fatte in una singola partita dei Mondiali, e rimarrà quindi nella storia non solo per il suo coraggio, ma anche per la sua bravura.
Altra storia altro portiere: Tim Krul, portiere di riserva dell'Olanda, è il coniglio magico estratto dal cilindro del prestigiatore Van Gaal: entra per pochi secondi e poi va a compiere l'impresa, parando due rigori ai costaricani e mandando in paradiso il suo popolo arancione.

Il calcio è, infine, Neymar, il piccolo imperatore un po' fighetto del Brasile, che ad un passo dalla Gloria Eterna è costretto ad abbandonare il suo popolo: e tutti adesso, dal bambino delle favelas al ricco commercialista, si sentono un po' orfani del loro grande sogno, quello di "O'Ney" che alza per la sesta volta la "Copa", e lo fa al Maracanà!

Il calcio è dunque un linguaggio, come dice Pasolini, e come tutti i linguaggi è fatto di livelli di difficoltà diversi da comprendere. Vi si può trovare cinismo, declino, pochezza. Oppure, se lo si ha in animo, ci si può scorgere la più estatica e sinfonica metafora della vita.

venerdì 13 giugno 2014

Vai, vivrai e tornerai.

Radu Mihăileanu è un regista che concede ben poco all'industria cinematografica: segue la propria ferrea, rigida volontà didascalica e non l'abbandona finché il lieto fine delle sue opere non è raggiunto.
Ogni suo film è una Babilonia d'emozioni: si susseguono introspezione, dramma, comunione, amore, peccato, perdono, salvezza. 
La cifra stilistica di Mihaileanu è una capacità rara, finissima, d'insinuare l'ironia nella disperazione, di diluire candida speranza su orrori tentacolari. "Vai e Vivrai", il film di cui voglio parlare, è però qualcosa di più; è un'epopea, è una docu-fiction sull'identità umana, è un romanzo storico che racconta (anche) quanto di più anti-storico esista: l'appartenenze religiosa.
Come accaduto in altri famosi e benemeriti casi (Emil Cioran, Eugene Ionesco), anche per Mihaileanu l'incrociarsi di destini tra metafisici migranti Romeni e la libertaria Francia ha generato grandezze inaudite per la storia dell'arte. C'è poi l'educazione ebraica a fare da sfondo ingombrante a questa ennesima storia di liberazione, in cui la terra promessa coincide con la terra natìa. Il protagonista del film, Shlomo, percorre infatti tutto il circolare sentiero della vita, finendo per tornare all'origine della sua inquietudine: l'Etiopia, la madre, il distacco forzato dalla sua identità (Cristiana).
"Vai e Vivrai" è un film toccante che obbliga lo spettatore ad una quantità di riflessioni sbalorditiva: il tema dell'adozione, dell'integrazione razziale, delle nefandezze dell'ortodossia religiosa. Un viaggio lungo e tortuoso che apre spazi di meditazione infiniti, tante sono le sfaccettature dell'avventura che il regista ci sottopone.
Consigliato anche e soprattutto a chi intenda intraprendere percorsi di accoglienza sui quali è bene prepararsi ponderando ogni aspetto.

martedì 10 giugno 2014

Cristo s'è fermato a Livorno



Ci sono immagini (Infografiche le chiamano quelli bravi) che esprimono concetti politici più dettagliatamente di 1000 parole.
Il concetto in questione è: come sono andati i ballottaggi di queste amministrative del Giugno 2014?

La risposta la trovate, appunto, nella foto qui di fianco.
Certo, gli italiani sono da sempre fenomenali (e terribilmente fantasiosi) nell'arte dell'interpretazione dei numeri, e quindi i dati non sono sufficienti. Occorre approfondire meglio, ne convengo, però partire da dei numeri è sempre sinonimo di onestà intellettuale.

Partiamo da Livorno, la città in cui, il 21 Gennaio del 1921, fu fondato al Teatro Goldoni il Partito Comunista d'Italia (sezione dell'internazionale comunista). Vederla passare di mano dopo tutti questi anni è un fatto storico.
In fondo, però, c'è ancora qualcuno che coscientemente, a ragion veduta può ritenere il PD parente seppur lontano di quella storia? Quindi, il "filo rosso" si era già spezzato da tempo, ammettiamolo.
Anche Perugia era una roccaforte del centrosinistra, ed è strategicamente forse ancor più doloroso per Renzi & C. averla persa.
Però, occorre guardare bene il risultato anche a livello nazionale. E i dati dicono che il PD ha ulteriormente incrementato il numero di amministrazioni che guida rispetto alla precedente tornata. Ha tolto moltissimi comuni al centro-destra, alcuni fondamentali come Bergamo o Pavia. In generale, tutto il nord ha mostrato di aver sposato in pieno la linea Renzi, ad eccezione di Padova dove la Lega ha speso uno dei propri migliori elementi, ovvero Bitonci, ex capogruppo al senato.

In generale, la considerazione da fare è che si è manifestata una tendenza all'aggregazione di forze anche in forte contrasto tra loro per tentare di arginare l'egemonia renziana. A Livorno vecchia destra e vecchia sinistra hanno apertamente sostenuto Nogarin, così come a Modena per il candidato 5 stelle si è speso addirittura il famigerato Giovanardi.
La paura di uno sfondamento di Renzi ad ogni latitudine, e soprattutto il timore di un certo vento di cambiamento, ha incoraggiato vecchi nostalgici della sinistra radicale come tanti orfani di Berlusconi a turarsi il naso e votare per il M5S, pur di frenare questa ascesa. Lo trovo lecito e comprensibile, ma si tratta di vittorie che nascono su basi molto molto precarie, poca progettualità, una convinzione e un supporto reale da parte della cittadinanza attiva molto limitato.
Le vittorie del centrodestra, al contrario, non sono frutto di veti incrociati e di barricate ma di qualità individuali, peraltro non diffusissime in quell'area politica...
A Perugia come a Padova come altrove, se il centrodestra ha vinto è perchè ha presentato un candidato decisamente più forte degli avversari, ad eccezione di Pavia dove la sconfitta di Cattaneo ha davvero ben poche motivazioni plausibili.
In generale, il centrosinistra ha rafforzato la sua leadership nazionale candidandosi a raggiungere un insperato e insperabile potenziale maggioranza assoluta, il che rischia di incidere però negativamente sul cammino della nuova legge elettorale: una legge che rischia di vedere il proprio percorso deciso dalla paura...

lunedì 26 maggio 2014

Un uomo solo al comando.


Ci sono varie spiegazioni sul risultato straordinario del PD e del suo leader Matteo Renzi in queste elezioni europee 2014.
Poche sono, o dovrebbero essere, invece, le conseguenze del voto, che un paese e un ceto politico serio dovrebbero considerare nella sua essenza: un voto per il parlamento europeo che non può influire se non in termini di "termometro politico" sulla situazione interna.

Prima di tutto però occorre definire bene i connotati statistici di questo trionfo:
1) si tratta del risultato più alto ottenuto dal centrosinistra nella storia della Repubblica italiana;
2) è il risultato più alto tra i partiti di centrosinistra in europa;
3) si prospetterebbe il risultato più alto per un partito italiano dal 1958;
4) A Milano, il polmone economico d'Italia, il PD ottiene quasi il 45%, risultato mai ottenuto da nessuno. 

Quest'ultimo dato in particolare spiega meglio di ogni altro come il consenso all'azione di governo sia stato trasversale, travalicando il tradizionale bacino d'utenza del PD (dipendenti pubblici, pensionati).

"O noi o loro".
I motivi di questa affermazione sono abbastanza chiari, a mio avviso. La polarizzazione del voto, voluto da Grillo ("o noi o loro") ma anche da Berlusconi ("è un referendum sul governo") ha fatto sì che la maggioranza degli elettori italiani, che è storicamente moderata, ha individuato in Renzi l'unica possibile ancora di salvezza. In sostanza l'aggressività di Grillo ha spinto i moderati, e buona parte dell'elettorato cattolico, tra le braccia di Renzi.
Il risultato è dunque il frutto delle doti incontrovertibili da cavallo di razza di Renzi nella campagna elettorale, ma anche dell'eccesso di personalizzazione che, in maniera suicida, hanno voluto gli altri due contendenti.
In una situazione che a livello europeo ha visto quasi tutti i partiti di governo arretrare vistosamente, un PD che ottiene questo risultato racconta un'Italia desiderosa di un minimo di stabilità, di ricambio moderato, di riforme ma non di rivoluzioni al buio. Era prevedibile.Da provinciali quali siamo abbiamo caricato di significati nazionali un voto che era extra-nazionale: con questo errore grossolano i contendenti del premier, in un contesto europeo dove in realtà i social-democratici hanno ottenuto un risultato non in linea con le aspettative, hanno trasformato il voto in un boomerang micidiale. Adesso infatti il PD avrà buon gioco ad imporre le proprie linee-guida al governo, e Renzi potrà mettere a tacere tutti coloro che gli rinfacciavano di non avere la legittimazione popolare per dettare il suo crono-programma serrato di riforme costituzionali.

"L'Europa cambia verso".
Due sono gli aspetti su cui riporre l'attenzione rispetto al voto europeo. Il primo è il grande peso che l'Italia e il PD acquisiscono all'interno del PSE, dove viene acquisita una leadership continentale che inevitabilmente comporterà una discussione interna simile a quella già avvenuta in Italia: la socialdemocrazia tradizionale si troverà a confrontarsi con quei principi liberaldemocratici che connotano attualmente l'azione del pd renziano.
Dal momento che l'ormai famigerata "austerity" ha visto come principale sostenitore il PPE ma senza particolari ostruzionismi del PSE, la speranza è quella che in un eventuale governo di coalizione a livello europeo le istanze anti-rigoriste di Renzi possano avere ascolto visto che si tratta della più importante affermazione, in termini numerici, tra i partiti di governo europei.
Da non sottovalutare poi l'eco, almeno in termini di entusiasmo ma anche di peso politico, che il risultato può avere nell'ottica del futuro semestre di presidenza italiana dell'europa, ormai alle porte.
Il secondo aspetto da studiare adeguatamente è quello del grande balzo in avanti, dello sdoganamento che le politiche anti-europeiste hanno permesso alle destre nazionaliste e post-fasciste.
L'Italia si è salvata da questa deriva anche grazie alla forza del M5S che ha attirato su di sé parte di questo elettorato, che è comunque presente e in crescita come dimostra l'affermazione della Lega.
Se le istituzioni europee producono così tanto odio e così poca fiducia, è bene che chi guiderà la commissione nei prossimi anni ne tenga conto e si avvii verso una riforma radicale sia del rapporto con i cittadini (e con i media) sia di una burocrazia ritenuta dai più nefasta e deleteria.

"In basso a sinistra".
La sinistra in quanto tale si attesta ormai sul 4-5%. Tsipras, che pure è apparso in questa campagna elettorale come uno dei pochi protagonisti credibili, anche se solo in termini contenutistici, della contesa, pur aggregando tutta l'area non è andato oltre il minimo sindacale (4,03%) che gli consentisse l'approdo al parlamento europeo. Dato questo che fa comprendere come per quest'area non ci sia più margine per battaglie in solitaria. La battaglia per imporre certi valori, se vuol essere davvero traducibile in realtà, ovvero in provvedimenti e leggi, va fatta all'interno del PD che si presenta ormai come un contenitore aperto che, grazie alle primarie, può permettere a chiunque di giocare le proprie carte, anche agli outsiders.

"In alto a destra"
.
Il centrodestra italiano conferma di essere forza maggioritaria nel paese, nonostante l'anomalia berlusconiana sia ormai, e aggiungiamo finalmente, giunta al tramonto. La somma dei risultati di Forza Italia, NCD, Fratelli d'Italia e Lega dimostra ancora una volta come sia orientato il corpo elettorale italiano, e come sia facilmente recuperabile visto anche l'alto astensionismo. Questo è un dato da non trascurare, nell'ottica di un futuro bipolarismo moderno, di una democrazia dell'alternanza funzionante e compiuta.

Non resta dunque che augurarsi che Renzi sappia trarre giovamento da questo fragoroso investimento popolare procedendo spedito verso la tanto sbandierata opera di riforma e rinnovamento totale, che vada dalla pubblica amministrazione alla costituzione all'economia, incurante dei numerosi ostacoli ma attento alle istanze di tutti, specie di chi, a causa della crisi, è rimasto un po' più indietro.

sabato 24 maggio 2014

Tesa attesa

Non ho bisogno di viaggiare: sono già lì.
Lì con te, con i tuoi fratelli di giochi, le tue mamy gentili. L'attesa è pensiero, è immedesimazione, è viaggio da fermi, ed io sto viaggiando da tempo.

Il cielo non lo sa
che ci struggiamo più delle nuvole
in un azzurro interinale.

Sono le nuvole il legame più forte che abbiamo, adesso. Salirei sopra ogni nuvola che sorvola casa mia (mi casa es tu casa) e come nei cartoni animati mi farei trasportare, come fosse un tappeto volante, direttamente da te.
Ti immagino guardare il cielo come lo guardo io, ogni tanto, ti immagino isolarti dal mondo ed osservare lo struggersi delle nuvole, il loro correre, il loro mutare. Anche per te il futuro è una nuvola, cangiante, fuggevole: ma dietro lo sai, che si nasconde un sole infinito. Siamo sole dell'avvenire, l'uno per l'altro.

C'è uno stormo d'aquiloni
nel tempo che ci sorvola gl' animi
in questa lunga intermittenza
di silenzio e di speranza.

Abbiamo sperimentato miliardi di cambi d'umore, abbiamo nutrito il pessimismo e l'ottimismo con minuscole briciole di notizie che altri hanno lasciato sul nostro cammino. Siamo due palestrati dell'attesa, io e te, e questo ci ha resi più forti, non dobbiamo dimenticarlo mai. Nell'attesa ci siamo allenati a qualsiasi evenienza, abbiamo percorso sentieri ardui senza mai fermarci. Siamo sherpa della pazienza e della speranza e ci stiamo arrampicando lentamente sulla vetta.
Forse hai amici più grandi che ti hanno chiuso in un angolo, forse ti sei sentito così solo da affezionarti a quel maialino di pezza come fosse il tuo parente più stretto.
Potrai portare tutto questo con te, e tutto questo sarà la parte di te che amerò di più. Potrai portare silenzi lunghi come una notte polare e saranno per me pezzi di hard rock incandescente.

Siamo un duetto d'anime,
siamo una trasfusione di rime,
di attese, di lacrime;
siamo sogni arsi,
una culla con intarsi
scolpiti nella notte
ascoltando le lancette
della sveglia avvicinarci.

domenica 11 maggio 2014

Essere Capitano: Javier Zanetti.

Nei giorni delle magliette che chiedono libertà per gli assassini, delle bombe carta e delle pistole, dei covi di tifosi fascisti, dei politici che speculano sul dolore per una manciata di voti in più, ci voleva.
Sì, ci voleva proprio l'epica giornata dell'addio del capitano nerazzurro, perché riporta il calcio alla sua dimensione più bella: quella romanzesca, letteraria, eroica.
La carriera di Zanetti ricorda a giovani e meno giovani l'esistenza di valori ormai dispersi, il suo esempio rasserena le mamme crucciate per le smanie pallonare dei figli, e offre l'assist ai buoni padri di famiglia per riportare in campo l'importanza del sacrificio, della serietà, della correttezza con i propri ragazzi.

Javier Aldemar Zanetti, origini friulane e tempra operaia, è un uomo dai record “normali”, record cioè che non si basano sul talento cristallino o sul genio mirabolante. I suoi sono i record della dedizione, della professionalità, del rispetto degli avversari:

  • 857 presenze con la maglia nerazzurra (record assoluto);
  • 613 partite in serie A, che lo rendono il giocatore straniero con più presenze nella storia del nostro campionato;
  • la media inimmaginabile (diluita in 19 anni) di 32.3 partite a stagione giocate;
  • un totale di 1112 partite giocate in assoluto (5° di ogni tempo a livello mondiale);
  • 162 partite consecutive giocate con la casacca del Biscione;
  • 82 partite giocate in Champions League con la fascia di capitano (record assoluto);
  • 145 presenze con la nazionale argentina, che lo rendono il giocatore con il maggior numero di presenze nella storia di questa nazionale.
Non cito volontariamente i record di Zanetti che riguardano i trofei vinti, perché le vittorie, di fronte ad un uomo così, contano pochissimo. Zanetti ha vissuto anni di sconfitte, drammi sportivi non indifferenti (il tristissimo "5 Maggio"), gli anni delle inchieste giudiziarie e di Calciopoli, passando poi agli scudetti in serie e al celeberrimo "triplete" al fianco di Mourinho: tutto questo mantenendo sempre inalterato lo stesso atteggiamento, la stessa dedizione, lo stesso spirito.
Quelli che contano davvero, che meriterebbero di essere raccontati uno per uno invece sono i record ottenuti dalla fondazione creata insieme alla moglie Paula, la “Fondazione Pupi”: tantissimi progetti che hanno garantito nutrizione, pari opportunità, formazione a migliaia di bambini in Argentina.

Poi c'è quel dato che, pur non essendo record, ne racconta perfettamente le qualità umane:
  • 1 sola espulsione in 19 anni di serie A, per una scivolata sul campo bagnato di Udine.
L'ultimo record racconta di un bruttissimo infortunio, la rottura del tendine d' achille subita alla non tenera età di 39 anni. Ebbene, anche in questo caso l'abnegazione, la forza di volontà, l'amore per questo sport e per l'appartenenza ai colori nerazzurri lo hanno riportato in campo. Un'altra storia da raccontare ai giovani, un' altra parabola da raccontare a chi si trova in un momento di difficoltà.

Ecco, tutto questo è stato ed è Javier Zanetti, “El Tractor”: esempio di vita.

domenica 6 aprile 2014

Derive Autoritarie Quotidiane.

Non so se certi "mood", certe idee, certi concetti nascano per un effettivo sentimento di paura o di indignazione oppure siano totalmente frutto di elaborazione razionale di uno, due, tre capicordata, ideologi, ispiratori (non saprei neppure come definirli).
Quello che so per certo è che quando un "manifesto" prende piede gran parte del pubblico che lo sottoscrive lo fa per interesse, per mera faziosità, in maniera totalmente acritica.
In italia la faziosità è il pasto più ingerito: ne sono colmi i talk show, ne tracimano i giornali, ne strabordano i social network. Ovunque c'è faziosità.
Non esula da questo peccato originale dell'opinione pubblica italiana il recente appello "verso la svolta autoritaria" firmata da diversi intellettuali italiani, tra cui importanti costituzionalisti quali Zagrebelsky e Rodotà.
Si tratta di intellettuali di grandissimo valore ma per lo più legati ad un mondo antico, totalmente sfigurato dalla modernità, praticamente scomparso. Uomini e donne nati culturalmente e formatisi sotto l'egida delle ideologie imperanti, con una forma mentis costruitasi tra la paure, le guerre, i muri.
Adesso però siamo nell'Aprile 2014, la classe dirigente cui attribuiscono questa fantomatica svolta autoritaria è costituita da gente che ha iniziato a fare politica quando il Muro era già crollato, tanto per capirsi. Una classe dirigente che comunica in 140 caratteri e che si può accusare forse di frivolezza, magari anche di superficialità, ma che la democrazia e libertà li ha nel sangue.

La realtà è che questi appelli si fondano, basta vedere chi li ha firmati, sue due sentimenti:
1) sulla nostalgia: quella dei depositari di un sapere (quello costituzionale, ad esempio) superati o da superare, grandi valori che non vanno dimenticati, vanno solo adeguati ad un mondo che non è più quello uscito dalla più spaventosa guerra della storia dell'umanità.
2) sul risentimento: quello di Grillo & Casaleggio, ma anche degli intellettuali di una sinistra che non c'è più, sconfitta dal tempo e dalla storia. Gente che parla di svolta autoritaria un giorno sì l'altro pure, che vede pericoli in tutto ciò che non sia ossequioso alla propria visione autarchica e monocromatica. Gente abituata a urlare al mondo le altrui colpe, ma incapace di riconoscere le proprie.

Molti indicano in una certa freddezza nei confronti del mondo della cultura una grave e inaccettabile pecca da parte di questo governo. Il punto però è che la presa di distanze non è verso il mondo della cultura nel suo insieme, ma verso un certo corporativismo del sapere che in Italia ha prodotto tante eccellenze ma anche tanti parassitismi. In un'epoca di ripensamento del sistema-paese, il mondo della cultura non può essere certo esentato: i cosiddetti "baroni", le strutture direzionali delle università, enti improduttivi, tutto questo dovrà sottoporsi a ripensamento, a riforma, aprirsi alla contemporaneità che, purtroppo, adesso significa anche necessità di riduzione dei costi.

Sia chiaro: non è detto che queste riforme messe in cantiere dal governo siano tutte giuste e corrette: è corretto stimolare il confronto nel dettaglio, puntare ad apportare modifiche laddove vi siano debolezze. Quel che è certo però è che non possiamo più rimandare, all'infinito, inneggiando ad un "benaltrismo" assurto ormai vera e propria religione di ogni opposizione.
Nella riforma del senato, il ruolo dei delegati degli enti locali può essere certamente approfondito con il contributo di tutti. Nella ridistribuzione delle prerogative delle province certamente possono essere ascoltate le critiche di chi ritiene questa correzione non del tutto funzionale. Però il disfattismo, lo sfascismo che sa soltanto ottenere immobilità lo deploro: da troppo tempo galleggiamo in un nulla eterno che ci sta inghiottendo. Per cortesia, usciamone.

Sono tra coloro che non ritengono la figura del "costituzionalista" tra le più alte del nostro panorama culturale: non riesco a riconoscere a questi studiosi monogami, esperti di un solo sapere totalmente rivolto al passato quella patente di guide spirituali del paese che invece molti sembrano conferire loro. Mi sembrano uomini di grande levatura morale ma distanti dalla realtà, dalla realtà produttiva, dalle infinite precarietà dell'esistenza moderna, dalle incertezze emotive ed esistenziali con cui le nuove generazioni sono chiamate a confrontarsi.
No, non credo che Stefano Rodotà, Sandra Bonsanti o Barbara Spinelli abbiano gli strumenti, neppure quelli culturali, per fornire un'ermeneutica adeguata ai tempi, e quindi, di conseguenze, fornire soluzioni.
La loro battaglia è unicamente, meramente, puramente una battaglia di conservazione, senza alcune visione di prospettiva.

sabato 29 marzo 2014

Glicini

Wisteria è il suo nome scientifico.

Nel mio vocabolario interiore la uso come sinonimo di Primavera.

Scende dal cielo posandosi su archi trionfanti e caritatevoli, accarezzando le anime stanche dell'inverno.
Consola dalle lunghe privazioni di sole mostrandosi nel suo splendore il sabato pomeriggio, quando passeggiando riflessivo per sentieri fuori rotta ti imbatti nella sua potenza scenica, rifocillando l'umore d'amore.
Sembra piovere sotto un glicine. Piove bellezza, o una grandine violacea che neppure tanto delicatamente pare voler sommergere chi le passa sotto. Circonda di profumi e rapisce sguardi verso l'alto, finché un calabrone non distoglie dall'ipnosi estatica lo sguardo dell'ammiratore.

Il glicine è cornice perfetta dei sentimenti, incentiva le effusioni perché è esso stesso effusione tra gli occhi e il Creato.

"Volami addosso se questo è un valzer/
volami addosso qualunque cosa sia/
abbraccia la mia giacca sotto il glicine/
e fammi correre/
inciampa piuttosto che tacere/
e domanda piuttosto che aspettare".
Così cantava Fossati, e noi con lui.

Quando rinascono i glicini tutto diviene spirituale, e in un tardo meriggio purpureo diventa alto il rischio d'improvvisate conversioni anche per gli agnostici più navigati.

domenica 23 febbraio 2014

Una consolazione impossibile

“Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa”.
(Stig Dagerman, “Il nostro bisogno di consolazione”, incipit)

Confessione di un’anima abbattuta, afflitta, in eterno conflitto con l’Inspiegabilità dell’Essere, questo brevissimo testo regala una densità di spunti inversamente proporzionale al numero di pagine di cui è composto. Alla ricerca incessante di “consolazione”, l’essere umano dipinto dal pittore espressionista Dagerman non riesce mai a soddisfarsi, ad appagarsi, se non per piccoli tremebondi attimi, dati da umane, ahi troppo umane cose: il caldo abbraccio di una donna, un’improvvisa ispirazione poetica, un’ennesima estasi in madre natura.

Ma la Luce, quella Luce che unica potrebbe dare consolazione perdurante, a noi intuttopococredenti è preclusa. Ed ecco allora che questo piccolo libro diviene premonitore di un destino maledetto, quello di Dagerman e del suo suicidio a soli 31 anni, allorché sempre più insistente si affaccia, sovente e convincente, la parola Morte. Parola troppo spesso, pericolosamente, posta vicina alla soluzione del Tutto, che Dagerman chiama appunto Consolazione. Come quando, al termine di una profonda esplicitazione di quella che è la sua inalienabile aspirazione alla Libertà, scrive:
E mi pare di capire che il suicidio è l’unica prova della libertà umana”.

Il talento, il bisogno di sentirsi uno ed unico nei confronti di una massa sempre più opprimente, un esistenzialismo irrisolto e irrisolvibile, tutto questo emerge dalle poche pagine di questo testo a mio parere altissimo, vera e propria opera d’arte, breve riassunto di un autore poco conosciuto ma intenso e sconvolgente come pochi altri.
Per meglio comprendere il percorso di pensiero compiuto da Dagerman occorre tenere presente la sua formazione anarchica, lontanissima dalla tripartizione geo-politica imperante al tempo della sua gioventù, ovvero la “trimurti” Nazismo-Stalinismo-Americanismo. Questa incapacità di accettare una realtà inaccettabile per i suoi slanci romantici, la sua sensibilità, i suoi veraci sentimenti d’amore per l’umanità, traghetta lentamente la lucida razionalità di Dagerman da un anarchismo “politico” ad un anarchismo “esistenziale”, ovvero un tendenziale nichilismo che sfocia in vera e propria disperazione.

È a questa disperazione, conseguenza di un’angoscia dai connotati classicamente kierkegaardiani-heideggeriani, che Dagerman si rende conto di non poter dare consolazione, e questo breve testo ne è la splendida ma triste presa di coscienza finale.

A metà tra il testo filosofico e il monologo, quest’opera ricorda e si avvicina a opere di autori precoci e maledetti, tragici, e potrei al riguardo citare un Carlo Michaelstaedter o un Otto Weininger, per l’analoga fine che li contraddistingue, ma anche il Camus de “L’uomo in rivolta”. Tuttavia, emerge dalla lettura di questo libro (più che degli altri romanzi da lui scritti) una concreta originalità, un talento innato che rendono questo autore unico anche nel panorama della letteratura scandinava del primo Novecento.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Stig Dagerman, “Il nostro bisogno di consolazione”, Iperborea, Milano 1991.
Traduzione e introduzione di Fulvio Ferrari. In appendice, frammenti.
.Stig Dagerman (Älvkarleby, 1923 – Stoccolma, 1954), scrittore, poeta, saggista, sceneggiatore svedese. Diresse “Storm”, giornale della gioventù anarchica. Debuttò pubblicando il romanzo “Il serpente” nel 1945.
Prima edizione: “Vårt behov av tröst”, 1952.

sabato 15 febbraio 2014

Fenomenologia del renzismo

Dunque ci siamo.
L'uomo del fare (l'ennesimo), l'uomo dalla "smisurata ambizione", il volto Pop di una sinistra talmente nuova da non esistere più ce l'ha fatta: è arrivato al traguardo.
Da ogni parte si sollevano proteste, critiche, sberleffi su un'incoerenza mastodontica, che spiazza e lascia l'amaro in bocca anche a coloro che hanno sempre sostenuto il sindaco di Firenze. É inevitabile per uno che ha edificato tutta la propria carriera politica sul consenso popolare, che ha fatto della vocazione maggioritaria un suo tratto distintivo, ma che poi si ritrova a percorrere l'ultimo chilometro della sua maratona sfruttando mezzi non suoi, non facendo affidamento esclusivo sulle proprie gambe, il proprio cuore, il proprio agonismo.

L'istinto di affibbiargli epiteti quali "traditore", "bugiardo", "arrivista" sorge sia nei più acerrimi detrattori che nei più accorati sostenitori.
I fatti della politica però vanno sempre analizzati con la massima razionalità possibile, altrimenti si rischia soltanto di incappare in banalizzazioni fini a se stesse.

L'urgenza, l'ossessione di Renzi sono le riforme, il cambiamento, concetti sui quali ha investito tutto il proprio capitale elettorale. Una volta trovato l'accordo con parte delle forze parlamentari per queste riforme, Renzi ha dovuto prendere atto che i tempi della traduzione in atti e fatti della sua volontà sarebbero stati lunghi e il percorso molto rischioso. I partiti più piccoli, compattamente, ma anche parti della minoranza del PD si sono mostrate apertamente ostili alle Riforme proposte, specie per quanto concerne l'abolizione del senato.
I rilievi del Presidente della Repubblica poi, che hanno costretto all'innalzamento della soglia minima per ottenere il premio di maggioranza al 37%, hanno probabilmente portato a maturare una nuova consapevolezza: che una maggioranza vera, compatta, armonica del PD in grado di garantire la tanto agognata governabilità non ci sarebbe mai stata.

Il governo Letta aveva ormai, a parere quasi unanime, esaurito la propria spinta, limitandosi ad un vivacchiare quotidiano di proclami e buone intenzioni che la situazione economica drammatica non poteva più giustificare.
Detto che quella di Renzi è, seppur nei suoi limiti, l'unica base programmatica, progettuale che abbia ricevuto un apprezzamento popolare (attraverso le primarie), che gode di un consenso abbastanza ampio e trasversale anche tra le forze sociali, come tradurla quindi in azione di governo senza dover attendere anni e anni?
Come evitare il logoramento della persona, delle idee, del consenso?

La strada prediletta dei renziani era ovviamente quella delle elezioni, ma con quale legge elettorale? con quali garanzie di vittoria?

Sulla scia di questi dubbi i collaboratori più stretti del futuro premier hanno iniziato a chiedere al segretario PD di prendere in considerazione l'ipotesi della famigerata "staffetta".
In quel preciso istante, la minoranza ex DS, giunta alla conclusione che il governo Letta non aveva più motivi per andare avanti, ha voluto sfidare il neo-segretario a mostrare di che pasta fosse fatto. Qui entra in gioco l'orgoglio di un Renzi che non aveva più voglia di attendere, di nascondersi. 
I nemici di ogni parte politica, convinti che il suo sia soltanto un fuoco fatuo, una stella destinata a spegnersi presto, lo hanno spinto ad una decisione spiegata con il "necessario senso di responsabilità" del segretario del principale partito italiano, ma che in realtà è frutto della sfrontatezza di un giovane politico abituato a giocarsi il tutto per tutto, idiosincratico agli attendismi.

Matteo Renzi adesso si gioca un "all in": per lui non ci saranno seconde possibilità. Ad un rottamatore non si perdona niente. La sua sarà una gara tutta in salita, solitaria, una sfida quasi impossibile da vincere considerando le insidie che gli arriveranno da ogni parte. Avrà contro le opposizioni, avrà contro gli sfascisti di professione, avrà contro i conservatori di lungo corso (la cosiddetta casta), avrà contro anche intellettuali e professori della sofisticazione (dai costituzionalisti à la Zagrebelsky in giù).

Il destino di Renzi però è il destino dell'Italia: l'ultima possibilità di rilancio, di rimonta, di crescita.
Alternative non ce ne sono: ancora una volta, tocca turarsi il naso e sperare. Remare contro la sua voglia di cambiamento significa remare contro il futuro di questo paese; spegnere la sua ambizione, oggi, significa spegnere l'ambizione di un paese stanco, che ha energie solo per un ultimo scatto in avanti, prima di sedersi per sempre.

sabato 8 febbraio 2014

Un baule pieno di gente

Si dice di Pessoa: più che uno scrittore, fu un' intera letteratura.

Ed è proprio così: l'infinito riproporsi dell'autore portoghese all'attenzione degli appassionati è un loop inestinguibile causato proprio dal florilegio di personaggi, di caricature, di personalità che emergono dalla sua opera. 
Eteronimia è dunque il vocabolo chiave, come ha spesso spiegato anche Antonio Tabucchi, vero e proprio eco di Pessoa nella contemporaneità.

"Mi sono moltiplicato per sentire, 
per sentirmi, ho dovuto sentire tutti, 
sono straripato, non ho fatto altro che traboccarmi, 
e in ogni angolo della mia anima c'è un altare a un dio differente".

Un apparentemente insignificante impiegato di un'oscura azienda di Lisbona, con mansioni di traduttore, celibe e schivo, timidamente monarchico: questo era, appariva agli occhi (pochi) di chi lo frequentava. Un'anima debole, zoppa, tintinnante, sgorgata in 27.543 "files" ritrovati in un baule alcuni anni dopo la morte, che vanno a tratteggiare un Odissea di storie, un oceano di versi, aforismi, prose d'arte di valore inestimabile per la letteratura novecentesca.
Nel suo silenzio fecondo, Pessoa nascose dentro quel "baule pieno di gente" tutta un'antologia, capace di spaziare dal nichilismo cinico e acuto di Bernardo Soares al sublime sperimentalismo di Álvaro De Campos, fino al paganesimo autoconsunto di un novello Orazio, ovvero Ricardo Reis.
Tuttavia, al di là dell'incontenibile furia genitrice di "autore in cerca di personaggi", quello che rimane di Pessoa è una lezione di psicanalisi collettiva che insegna la multiformità dell'IO (di ogni IO), la sostanziale essenza multilevel di ogni persona, la fertilità della contraddizione e talvolta perfino della finzione.
"L'enigma in persona", come lo definì Federico Barbosa, è ancor'oggi uno spunto di riflessione sull'uomo, sulle sue infinite possibilità, sulle sue infinite evoluzioni. Pessoa è lo spicchio di evoluzione della specie che alberga in ognuno di noi, è la mutevolezza del pensiero che ci ridisegna ogni giorno, è il dolore che scolpisce nuovi sentimenti con lo scorrere delle vicende nostre e di chi amiamo.

"Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente".

Minimo comune denominatore, se vogliamo trovarlo, di tutta la produzione eteronima di Pessoa è una certa inquietudine, quella strana sensazione, indefinibile, di non riuscire a possedere la vita davvero fino in fondo. Suona dunque in sottofondo una colonna sonora nostalgica e costante, un Fado irresistibile, che nessuno è riuscito a tradurre così bene in suoni&immagini come Wim Wenders  in Lisbon Story
Eppure, quello di Pessoa è, in ultima analisi, un inno alla libertà, una libertà figlia di una curiosità senza pregiudizi, in grado di spaziare dall'occultismo ai classici greci, dalla monarchia alla geografia. Una dedizione costante alla ricerca, un inarrestabile invito a trascendere se stessi.
Perché anche nell'oscurità di un ufficio senza finestre, possono filtrare i raggi di una creatività insopprimibile.

sabato 18 gennaio 2014

Nutrirsi d'ipocrisia.


Si nutrono d'ipocrisia, fingendo che la memoria storica sia flebile come la loro coerenza.
Sono i post-democristiani riorganizzati in partitini piccoli, postumi, decrepiti. Sorgono e risorgono continuamente, frutto delle clientele, degli opportunismi, dei posizionamenti tattici fini a se stessi.
Alfano, Casini, Formigoni, De Girolamo. Lista chilometrica di  vecchie e nuove figure pubbliche dedite unicamente all'interesse privato.
La diatriba sulla legge elettorale ne è un esempio palese: questi conservatori immarcescibili riempiono la loro retorica quotidiana di vuoti slogan sulla "garanzia delle minoranze", cercando di nascondere (male) null'altro che una difesa barricadera delle proprie posizioni di potere.
Per funzionare, un paese ha bisogno di regole chiare, semplici e (quasi) definitive, che garantiscano governabilità più che rappresentanza, oggi. La rappresentanza può essere garantita e sviluppata all'interno di coalizioni dove il dibattito interno sia, più che tollerato, incentivato. Questa è la direzione che l'Italia avrebbe dovuto intraprendere già dopo il Referendum maggioritario radicale del '94. Oggi Renzi tenta nuovamente questa via, e si imbatte ovviamente nell'ostacolo di coloro che vedono come il fumo negli occhi la limitazione del peso dei piccoli partiti, così come l'abolizione del senato.
Ipocrisia a fiumi scroscia però anche nel PD, dove una sinistra che ha convissuto, contrattato, governato con Berlusconi per 20 anni, facendoci persino una Bicamerale insieme, adesso rifiuta qualsiasi contatto, ostentando una verginità perduta in realtà da oltre un lustro.
Qualsiasi legge che vada a modificare l'ordinamento, la struttura di un paese deve essere condivisa dal maggior numero di persone possibile. Purtroppo, il 30% degli italiani è rappresentato da un pregiudicato, ma tant'è, non ci si possono scegliere gli interlocutori, se questo passa il convento, con questo occorre dialogare.

Discutere di legge elettorale con QUESTO capo dell'opposizione è sinonimo di democrazia. Farci un governo insieme no.